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La Milano del buon gusto/Secondi e dolci

SOMMARIO

Dall’amore sconfinato per il formaggio, tanto da far valere ai milenesi il titolo di “furmagiatt”, all’ossobuco, piatto tipico già dal Settecento. Senza tralasciare i dolci, come panettone e pan meino. Ecco quali sono i piatti che hanno scritto la cultura gastronomica di Milano, apprezzatissimi già da Giulio Cesare…

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La Milano del buon gusto/Secondi e dolci

Fiumi di latte

A partire dal XII secolo iniziò la costruzione del Naviglio e con le conche di Leonardo, nel XV secolo, la navigazione fu possibile da Milano fino al Po. Grazie ai corsi d’acqua nel capoluogo lombardo giungevano non solo prodotti della terra coltivati in abbondanza nei campi ben irrigati, ma anche fiumi di latte e pànera, ovvero panna in dialetto milanese, in parte già lavorati in burro e mascarpone. Il poeta veneto Ugo Foscolo in una lettera dei primi anni dell’800 definiva in modo dispregiativo Milano, dove visse, Paneropoli, da pànera. In realtà il poeta benché considerasse la città un posto “infame”, non disdegnava affatto di frequentare con amate nobildonne meneghine il Caffè dei Servi, sull’angolo tra la corsia omonima (l’attuale Corso Vittorio Emanuele) e la via Pasquirolo. Il locale era specializzato nel servire uno squisito caffè con panna, che, secondo Stendhal, era superiore “a tutto ciò che si trova a Parigi”.

Non si sa invece se Foscolo e Stendhal ebbero modo di assaggiare la Barbajada, una prelibatezza inventata da Domenico Barbaja nato a Milano nel 1778. Si trattava di panna mescolata in parti uguali con il caffè e con la cioccolata e veniva servita al Caffè dei Virtuosi, fondato dallo stesso Barbaja, che si trovava a fianco del Teatro alla Scala. Il latte, la panna e il burro erano dunque (e sono) protagonisti nelle cucine dei milanesi: nel burro si annegavano per rosolarli insieme con pancetta e rosmarino e vino bianco i rostin negà’a, nodini di vitello con l’osso; nel latte si cuoceva l’urgiada (minestra d’orzo); con il latte si allungava il sugo dell’arrosto di maiale; la panna veniva utilizzata per addensare salse e fondi di cottura, per condire tortelli e accompagnare dolci come per esempio il pan meino (o pan de mej), tipico dolce che deriva il suo nome dalla parola miglio con cui è preparato fin dall’antichità.

Milanesi “furmagiatt”

L’ironia di Foscolo sull’uso sconsiderato di panna e burro dei milanesi aveva basi di realtà. Milano era in effetti la capitale dei “furmagiatt”, gli amanti del formaggio. La storia narra che il formaggio Grana della Pianura padana nacque nel 1135 prima nell’abbazia di Chiaravalle, pochi chilometri a sud di Milano, poi in altri monasteri benedettini. Per utilizzare il latte in eccesso prodotto dagli allevamenti di mucche che pascolavano nelle terre vicino al Po appena bonificate, i monaci iniziarono a produrre un formaggio, che chiamarono caseus vetus, formaggio vecchio, in apposite caldaie all’interno dei monasteri. Il nome Grana con cui oggi è conosciuto il formaggio deriva dall’aspetto compatto, ma granuloso.

A Milano, come detto giungevano dai villaggi della pianura molti prodotti caseari. Per esempio lo Stracchino, il cui nome deriva “stracche” cioè “stanche” , con riferimento alle mucche, che dopo un lungo viaggio per rientrare dai pascoli, arrivavano verso sera stanche alle stalle dove venivano munte. Dalla mungitura si ricavava una gran quantità di latte utilizzato per fare un formaggio molle, detto appunto “stracchino”. Un altro formaggio molle era la Crescenza che deriva dal latino “crescentia”, che significa “accrescimento” o dal longobardo “carsenza”, che vuol dire “focaccia”. In entrambi i casi a definire il nome è la caratteristica del formaggio di “crescere”, gonfiarsi, come il pane, se lasciata in ambiente caldo.

Lo “stracchino di Gorgonzola” chiamato Gorgonzola, invece sembra derivare il suo nome dall’omonima cittadina alle porte di Milano dove appunto si fermavano le mandrie a riposare. Ci sono diverse leggende sull’origine di questo formaggio. La più diffusa è quella che narra di un casaro distratto, forse innamorato, che interruppe la lavorazione del formaggio per riprenderla il giorno seguente, con conseguente produzione di un formaggio con le caratteristiche muffe, ma squisito. Alla lista non può mancare il Mascarpone anch’esso dalle origini antiche, ma sconosciute. Una delle prime testimonianze si trova nel Summa Lacticiniorum, un volume sul latte e i suoi derivati, una sorta di enciclopedia dei formaggi, edito nel 1477 dall’accademico vercellese Pantaleone da Confienza. In questo testo si trova una ricetta a base di mascarpone: “...al mascarpone si mischiano dell’acqua di rose e un bel po’ di zucchero”. Si sa che il mascarpone piaceva molto a Napoleone che probabilmente lo gustò a Lodi nel maggio del 1796.

Ossobuco in bianco

Non si sa quando l’ossobuco sia entrato nella tradizione culinaria milanese, ma di certo nel Settecento era già uno dei piatti tipici. Spesso abbinato al risotto alla milanese l’ossobuco, è una tipica preparazione milanese fatta con fette di geretto di vitello posteriore comprensive di osso centrale con midollo. La ricetta prevede le si cucini in bianco o con pochissimo pomodoro. Questo ortaggio infatti tanto utilizzato al Sud ha faticato a entrare nelle cucine milanesi. Irrinunciabile è invece la “gremolada”, un trito di buccia di limone, prezzemolo, aglio e acciuga da aggiungere al sugo della carne a fine cottura.

La costoletta

Che strada percorse la cotoletta? Venne da Vienna a Milano oppure partì da Milano e arrivò a Vienna? È lo stesso Radetzky a dircelo a margine di una lettera sulla politica della Lombardia al Conte Attems, aiutante in campo di Francesco Giuseppe. Il maresciallo austriaco dice di averla scoperta a Milano e la descrive minuziosamente. A riprova delle origini milanesi della cotoletta esiste una testimonianza ancora più antica. Nella sua Storia di Milano, Pietro Verri riporta la lista delle pietanze offerte da un abate ai canonici di sant’Ambrogio nel 1134. Tra queste si parla di “lombolos cum panitio” , vale a dire fette di lombo impanate. Se non si fosse ancora certi della milanesità della cotoletta va aggiunto che l’omologa austriaca, la Wiener Schnitzel, è preparata con una fetta di vitello ben battuta, larga e sottile, passata prima nella farina, poi nell’uovo e nel pangrattato e infine cotta nello strutto. La “Milanese” si prepara con la costoletta di carré di vitello da latte con l’osso alto quanto la carne, si passa nell’uovo e nel pangrattato e poi si frigge naturalmente nel burro.

Mondeghili no polpette

Straniero che vieni usanza che porti. Da 150 anni di dominazione spagnola i milanesi hanno ereditato i mondeghili. La definizione nel Dizionario Milanese Italiano di Francesco Cherubini edito nel 1839 recita: “specie di polpette fatte con carne frusta, pane, uovo, e simili ingredienti”. I mondeghili arrivano dalla Spagna dove erano stati “importati” dagli Arabi soliti a preparare delle palline di carne avanzata per poi friggerle. In arabo le palline fritte si chiamavano “al-bundukc”, i castigliani cambiarono in “albóndiga” cioè polpetta. Da lì i milanesi arrivarono a dire mondeghilo.

Diversi dalle polpette sferiche, che a Milano indicano piuttosto un involtino di verza ripieno di carne, la Polpett de verz, i mondeghili sono appiattiti. Si preparano con carne trita di manzo avanzato, arricchita da salsiccia, salame crudo o mortadella, mollica bagnata nel latte, uovo (magari con gli albumi montati a neve), grana padano, aglio o cipolla e noce moscata. Ovviamente (anche) i mondeghili vanno fritti nel burro.

Il panino vuoto

La michetta di Milano è un pane unico e caratteristico perché senza mollica e che potrebbe lasciare delusi chi è abituato a spezzare un panino e a trovarlo bello pieno. Detto anche Pane soffiato la michetta nacque nel 1700 e in origine era un panino pieno dalla forma a rosetta. Lo avevano importato gli austriaci nel Settecento e i milanesi lo chiamarono “Kaisersemmel” (panino austriaco) con il diminutivo di “micca” o “mica” ossia “michetta” che in origine significava briciola. Il panino però nella umida Milano si rammolliva velocemente perdendo la sua fragranza. Per questo i laboriosi maestri panificatori milanesi decisero di privarlo della mollica rendendolo “soffiato”: così sarebbe rimasto cavo, ma fragrante.

Il panettone

La leggenda più sentita vuole che il dolce tipico milanese sia nato dalla distrazione del garzone di cucina di Ludovico il Moro. Toni, il garzone appunto, per sostituire il dessert bruciato preparato per la cena di Natale del Duca di Milano, con gli ingredienti rimasti inventò un pane dolce con burro, canditi che piacque molto e venne battezzato pan del toni, poi contratto in panettone. Più plausibile è la versione che fa derivare il vocabolo panettone da “pan de ton” ovvero da grandi occasioni. Fin dall’antichità infatti era uso dei nobili, ma anche del popolo, portare in tavola il giorno di Natale un grosso pane.

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