Il ricordo della Grande Guerra attraverso 200 opere
SOMMARIO
Passando per gli anni che precedettero la guerra, con la Belle Époque, il Divisionismo e il Futurismo, e poi per quelli che ne videro gli orrori, la mostra alle Gallerie d’Italia di Milano racconta la Prima Guerra Mondiale attraverso l’evoluzione dei movimenti artistici, suddivisi in quattro diverse sezioni. Eccone un breve assaggio
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Il ricordo della Grande Guerra attraverso 200 opere
Gli otto grandi pannelli che compongono il Ciclo della Vita umana, realizzato da Giulio Aristide Sartorio per la Biennale di Venezia del 1907, dominano il salone vetrato di Luca Beltrami delle Gallerie d'Italia di piazza della Scala a Milano. Si apre così la mostra dal titolo “Arte e artisti al fronte”, dedicata al centenario della Prima guerra mondiale, e inserita nel progetto espositivo “La Grande Guerra. Arte Luoghi Propaganda” , realizzato dal Gruppo Intesa Sanpaolo. Monocromi e ben inseriti nel salone, attraverso un vortice di figure in movimento i pannelli di Sartorio rappresentano il drammatico ciclo della Vita, della Morte, della Luce e delle Tenebre. La dimensione tragica e introspettiva, il ripiegarsi dell'attenzione sull'uomo e sulla sua coscienza, il terrore dell'abisso dell'esistenza sono i temi trattati nelle prime sale dell'esposizione, come introduzione al dramma della guerra imminente. Ecco una breve descrizione delle quattro sezioni inserite nell’esposizione milanese di Piazza Scala.
Per scoprire come è suddiviso il progetto espositivo, leggi:
Sulle tracce della Grande Guerra alle Gallerie d’Italia
Le ombre della Belle Époque
È la fine dell'Ottocento. Karl Marx ha messo in crisi la struttura economica esistente, Sigmund Freud ha introdotto il concetto di inconscio, Friedrich Nietzsche ha ribaltato la morale e inneggia al superuomo. Nel pieno della Belle Époque tutto sembra luccicare di spensieratezza. Ma al di là del ballo Excelsior e del Titanic le cose vanno diversamente. Sono anni pieni di inquietudini esistenziali e sociali, la povertà dilaga, le rivolte scoppiano in città e nelle campagne. A Messina il terremoto porta devastazione e morte.I protagonisti delle prime sale della mostra raccontano questa angosciante realtà prebellica, quasi un presagio degli avvenimenti successivi. Sono le povere Donne al Monte di Pietà di Mario De Maria (1885-1892, 1922), i Rivoltosi dipinti da Felice Carena (1904) che si stagliano su una lacera bandiera rossa, il ladruncolo delle Riflessioni di un affamato di Emilio Longoni (1893-1894), la solitudine e povertà degli anziani del Giorno di festa al Pio Albergo Trivulzio di Angelo Morbelli (1892). La morte si aggira e incombe tra i due secoli. Si muore lontani dalla patria nelle disastrose imprese coloniali in Eritrea, Etiopia e Libia (la scultura di Silverio Montaguti, Per la civiltà e per la patria, (1912), si muore a Messina e a Reggio Calabria nel terremoto del 1908. Sembra che il mondo debba finire, che la civiltà classica sia giunta al capolinea nel grande trittico di Adolf Hirémy Hirschl (1912) Sic transit....
L'inno alla guerra
Quando ogni certezza vacilla una voce si alza su tutte. È quella che inneggia alla guerra, che vede in essa una possibilità di riscatto nel conflitto. I Futuristi, convinti interventisti, sottoscrivono il Manifesto del 1909 di Filippo Tommaso Marinetti nel quale il nono articolo recita "Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna." Il movimento futurista interessò ogni forma di arte, dalla scultura all’architettura, dal teatro alla musica. La sala dedicata al movimento ospita capolavori di Giacomo Balla.E guerra sia
"Mi sono accoccolato/vicino ai miei panni sporchi/sudici di guerra/e come un beduino/mi sono chinato a ricevere/il sole". Questi struggenti versi di Giuseppe Ungaretti, tratti da I fiumi (1916) , campeggiano sulla parete della Sala 6 della mostra. Essi da soli possono fare da didascalia ai numerosi dipinti di Giulio Aristide Sartorio qui esposti. Poesia e arte figurativa si intrecciano come le vite dei due artisti e i luoghi della guerra. Ungaretti, partito volontario nel 1915 per il Carso poco più di ventenne, nei versi scritti dalla trincea fa percepire la solitudine del soldato; il pittore-soldato Sartorio, ultra cinquantenne, arruolatosi nel 1915 e poi tra il 1917 e il 1918, documenta la guerra con i suoi oli e i suoi pastelli. Reporter ante litteram, Sartorio fotografa i luoghi e gli eventi bellici e poi trasporta il tutto nelle sue tele. Negli attimi fermati nei suoi quadri, dalla ritirata sul Piave alla riconquista del Delta, non mancano azione, movimento, soldati, sensazioni ed emozioni. Insieme con Sartorio a descrivere la guerra concorrono altri pittori come Baccio Maria Bucci, Mario Sironi, Duilio Cambellotti, Lorenzo Viani. Dai loro dipinti però non traspare la fierezza dei soldati, l'eroismo delle azioni, ma attraverso un linguaggio disilluso e satirico le loro opere esprimono tutto l'orrore dell'"inutile strage".La costruzione del mito
Un anno dopo la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917) per l'Italia giunge la vittoria. E con essa la retorica ufficiale della sua celebrazione. Nella Sala 8 della mostra campeggiano i pannelli di Galileo Chini realizzati nel 1920 per il Salone centrale della XII Esposizione Internazionale d'Arte della città di Venezia. Si tratta di un ciclo decorativo in cui si inneggia alla guerra combattuta in mare, in terra, in cielo. Nei titoli dei pannelli ricorre la parola “Glorificazione” (dell'artigliere, del lanciere, del nocchiero, dell'aviatore, della Vittoria...). In questa sala si trova anche una delle diverse sculture dedicate alla vittoria e che sempre hanno le sembianze della antica divinità alata, la Nike e la Nike-Atena dei Greci. Ne è esempio La vittoria del Piave di Arrigo Minerbi, esposta la prima volta a Firenze nel 1922. Nelle ultime sale della mostra insieme con la guerra viene celebrata la figura della madre, come colei in cui si concentra il dolore di tutte le vittime. A chiusura della mostra sono le parole di un poeta a commentare, con una sorta di teologia negativa, l’assurdità del conflitto appena concluso e la mancanza di certezze dei sopravvissuti. Sono i versi di Eugenio Montale (Non chiederci la parola, tratta da Ossi di seppia del 1923) a recitare: "Non domandarci la formula che mondi possa aprirti/si qualche storta sillaba e secca come un ramo/Codesto solo oggi possiamo dirti/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo." In mezzo a tanta e vuota retorica post bellica, i versi di Montale risuonano come una nobile lezione di dubbio, come l’inno all’incertezza, con il suo rifiuto di cedere a qualsiasi verità conclamata dagli arroganti dispensatori di futuro.© Of-Osservatorio finanziario - riproduzione riservata
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